Racconto filosofico di Voltaire, pubblicato nel 1759.
Attraverso una serie di episodi esemplificatori, l'autore affronta con ironia
demolitrice le dottrine ottimistiche di Leibniz che, con il presupposto della
ragion sufficiente, giudicava l'universo "il migliore dei mondi possibili".
Cavia di questo metodo sperimentale è l'innocente giovane Candido, il
protagonista del racconto, al quale il filosofo Pangloss, suo precettore,
inietta appunto il succo del pensiero leibniziano. Allevato in un castello della
Westfalia e segretamente innamorato della giovane Cunegonda, figlia del
castellano, Candido viene cacciato, a calci, a girovagare nel mondo
perché sorpreso mentre si intratteneva con Cunegonda. Da allora le sue
disavventure si susseguono senza tregua e ognuna di esse s'incarica di demolire
un sostegno dell'impalcatura filosofica eretta nel suo cranio dal maestro.
Candido diventa di volta in volta guerriero in Bulgaria, mendicante e impiegato
in Olanda, naufrago nelle acque portoghesi e prigioniero dell'Inquisizione a
Lisbona. Condannato a morte come eretico, se la cava per un miracolo, ma per
amore di Cunegonda commette un duplice omicidio ed è costretto a riparare
in Spagna. Ufficiale dell'esercito di questa Nazione, combatte in Argentina
contro i Gesuiti, ma anche qui, ricercato per gli omicidi commessi a Cadice,
deve rifugiarsi nel Paraguay. Per sfuggire al fratello di Cunegonda che si
oppone alle sue nozze, fugge nelle foreste dell'America e, dopo essere scampato
per un miracolo ai selvaggi antropofagi, raggiunge l'Eldorado. Di qui, carico di
favolose ricchezze, passa nella Guayana Olandese e, pur venendo derubato nei
modi più disparati, intende riscattare Cunegonda a suon di milioni,
ritenendola trattenuta dal governatore di Buenos Aires. Passa quindi a Venezia e
poi nel Mar Nero dove è informato che Cunegonda, terribilmente
imbruttita, è schiava e fa la lavandaia. Riesce a liberarla e finalmente
ricongiunto a lei, a Pangloss e al fedele servitore Cacarubo, ma ormai quasi
povero e solo in possesso di un minuscolo podere, giunge alla conclusione,
contro le argomentazioni ottimistiche dell'inguaribile Pangloss, che tutto
quanto il suo maestro dice è a posto e sta bene, ma che, soprattutto,
è necessario coltivare il proprio giardino. Il racconto è ironico
e sarcastico, misto di realtà storica (il terremoto di Lisbona, ad
esempio) e di finzione. Alla base vi è una pacata considerazione morale
che è quasi un suggerimento: l'uomo non deve affannarsi a comprendere
tutto quello che lo trascende ma migliorare il suo destino, accettandolo e
dedicandosi al lavoro.